
Nov
2018
L’orso e il tartufo: cifra naturale e mitica del Tuber magnatum Pico
L’orso e il tartufo condividono una natura simbolica che, nelle società contadine, aveva a che fare con il selvaggio, il notturno e il sotterraneo. Un legame sottolineato anche dal calendario attraverso i santi “ursini” e il tempo della festa.
La civiltà contadina, a proposito di una pianta che pur essendo coltivata con cura stentava a crescere e non riusciva a svilupparsi, sentenziava “È come il tartufo, vuole crescere da sola”. Un modo di dire popolare, diffuso dal Périgord e la Provenza fino alle Langhe, che ben racchiude la caratteristica essenziale del nostro tubero, la sua “cifra” naturale, di prodotto libero, indipendente dalla cura e lontano dalle attenzioni umane. Un frutto della terra sì, ma che l’uomo non semina e che non può coltivare come fa invece di norma per piante e prodotti agricoli “domestici”. Ed è proprio così che il tartufo appariva, ed ancora oggi si presenta all’immaginario contadino che sopravvive in ognuno di noi. Uno dei tanti (e ormai pochi) “selvatici” che la natura cela ma che a volte rivela ed anzi offre, quasi a suggerirci oltre che straordinarie emozioni, anche inquietanti ricordi di remote origini, di legami arcani con quel mondo nascosto, sotterraneo e “notturno” come il nostro inconscio.
L’ORSO E IL TARTUFO: LE DATE URSINE DELL’AUTUNNO
Questa “selvaticità” originaria del tartufo si rafforza poi se constatiamo che alcune tappe della sua vita durante l’anno sono del tutto simili a quelle dell’animale “selvatico” per antonomasia, l’orso. Ad esempio, la “manifestazione” fuori dal sottosuolo, e cioè la scoperta e la raccolta del fungo per eccellenza, il “Magnatum Pico”, ha i suoi iniziali momenti, le sue prime “stazioni” in una serie di ravvicinate date ursine che si susseguono dopo l’equinozio d’autunno nel calendario di ottobre. San Bruno (6 ottobre), San Gallo (16), Sant’Orsola (21), San Fiorenzo (27) annunciano nel calendario antico l’avvicinarsi dell’inverno e nella mitologia popolare l’inizio del letargo dell’orso, simbolo rituale del riposo della natura.
Bruno, Gallo, Orsola e Fiorenzo sono tutti santi che hanno a che fare – come leggiamo nelle narrazioni di Jacopo da Varazze e dei Bollandisti – con il “selvatico”, con un orso che, da possibile nemico, diventa invece salvifico per il santo e per la sua “nascita” alla vita eterna. Nel selvatico ursino l’esegesi medioevale aveva trasposto infatti la mitica, pagana visione del plantigrado come presenza magistrale, a volte risolutiva e quasi catartica della salvezza, non solo mondana ma soprattutto spirituale, degli umani. Ma, mentre l’orso si iberna in una nascosta tana invernale, nello stesso periodo il tartufo esce invece alla luce, si manifesta grazie alla ricerca che ne viene fatta, alla scoperta e munifica raccolta.
L’ORSO E IL TARTUFO: LA FESTA DI SAN MARTINO
Il culmine di queste due parallele vicende calendariali del tartufo bianco e dell’orso, simili ma in realtà di segno epifanico opposto, cadeva proprio l’11 novembre, festa di san Martino, il “santo-ursino” per eccellenza. Era infatti questa la data clou della raccolta del tubero e – insieme- il giorno di inizio del letargo di quell’orso che la civiltà contadina chiamava familiarmente “Orso Martino”. Occasione di un vero e proprio “proto-carnevale” degli eccessi e della trasgressione gastronomica san Martino anticipava di 80 giorni il vero e proprio Carnevale di fine inverno. Per una decina di giorni le comunità dei campi e delle colline festeggiavano – a partire dai Morti – la prima degustazione del vino novello e dei cibi “grassi” riserva dell’inverno, le castagne, l’oca, il maiale e il tartufo.
Ottanta giorni dopo (la cabalistica “quarantina” moltiplicata per due) sarebbe poi toccato al 31 gennaio, festa di sant’Orso, prefigurare la fine di un inverno ormai declinante nelle prime prove di primavera. In quella notte l’orso mitico usciva dalla sua tana e, osservando la presenza o meno in cielo della luna piena, vaticinava sulla data dell’arrivo della Pasqua e quindi della primavera (“Vira tuira e tarabasca, l’invèrn a dura fin-a Pasqua”), dando inizio comunque ai festeggiamenti profani del Carnevale. Nella stessa data di fine gennaio terminava la raccolta del Magnatum Pico e quindi anche il suo annuale “disvelamento”, la ricerca ed offerta domestica del tubero frutto della feconda sua uscita dal mondo sotterraneo.
Ricominciava a febbraio il ciclo vitale della natura. Si manifestava d’improvviso nei primi soffi seròtini di primavera (“L’autunno arriva la mattina presto, la primavera alla fine di una giornata d’inverno”, Elizabeth Bowen) e nelle feste popolari di San Biagio (3 febbraio) e di Sant’Agata (5 febbraio), antichi marcatori calendariali di questi incerti ed effimeri sintomi di ripresa della fecondità universale. La vicenda “notturna” del tartufo bianco seguirà d’allora in poi, fino al successivo equinozio autunnale, cànoni suoi propri consolidati. Naturali e quindi poco o a volte per nulla prevedibili. Un ciclo vitale che dipenderà da quella natura complessa del tartufo che la tradizione già aveva, a suo modo, individuato e su cui occorrerà ritornare.